Wanda Wiktoria Półtawska era una tranquilla ragazza di Lublino: brava a scuola, caposquadra degli scout. Nel 1939 la Polonia fu invasa dalle truppe di Hitler e Wanda, come tanti altri giovani scout, entrò a far parte della resistenza, con il compito di porta-ordini. Per questo, all’età di 18 anni, fu arrestata e fece la drammatica esperienza del campo di concentramento a Ravensbruck, divenendo anche cavia umana per esperimenti scientifici.
Scampata miracolosamente alla morte, ormai già decretata per tutte le cavie, Wanda uscì da quell’inferno dopo 4 anni con l’animo sconvolto da orribili ricordi e da tante domande, sugli uomini e su Dio. Domande a cui nessuno era in grado di dare una risposta. Domande che nessuno, che non avesse fatto quell’esperienza, riusciva neppure a comprendere. Cercò quelle risposte iscrivendosi alla facoltà di Medicina a Cracovia e, contemporaneamente, alle facoltà di Psicologia e di Scienze Politiche. Continuò a cercarle specializzandosi in psichiatria. Ma invano. Divorava libri di filosofia, senza trovare sollievo ai suoi dubbi né soluzioni ai suoi interrogativi.
Le consigliarono di rivolgersi a un sacerdote, l’ennesimo sacerdote. Un prete che, peraltro, già conosceva. Era il cappellano dei medici e degli studenti di Medicina di Cracovia: don Karol Wojtyla. Il primo incontro avvenne in confessione. Lui capì la fonte dell’inquietudine della giovane e iniziò un lento cammino di direzione spirituale che avrebbe sanato le ferite passate e quelle future.
L’intesa, fra i due, divenne collaborazione. Poi si allargò anche al marito di Wanda, Andrea, e si trasformò in amicizia. E presto in qualcosa di più: lui la chiamava sorella e lei lo chiamava fratello.
Quando Wojtyla, già divenuto vescovo, nel 1962 partì per il Concilio la dottoressa, già madre di quattro bambine, non stava bene. Ma solo a Roma mons. Wojtyla fu raggiunto dalla notizia della drammatica diagnosi: cancro. Incoraggiò Wanda a sottoporsi a un intervento che si preannunciava con esiti invalidanti. Doveva farlo per Andrea, per le quattro bambine e per le tante persone che avevano bisogno di lei, ormai divenuta il pilastro centrale dell’Istituto di Teologia della Famiglia. Contemporaneamente il vescovo capitolare di Cracovia scrisse una lettera a Padre Pio, chiedendogli le sue preghiere «perché Dio, per l’intercessione della Santissima Vergine, manifesti la sua misericordia a lei stessa e alla sua famiglia». Undici giorni dopo mons. Wojtyla scrisse un’altra lettera, questa volta di ringraziamento, perché l’ultimo esame, a cui fu sottoposta Wanda prima dell’intervento, rivelò che erano scomparsi sia il dolore che il tumore. Un miracolo!
Per lei fu un nuovo trauma, altrettanto forte quanto quello della scoperta di una malattia che l’avrebbe certamente condannata a morte. Fu presa da un timore: «il timore della divina onnipotenza e delle conseguenze dell’Amore di Dio». Entrò in depressione.
Anche questa volta fu il fratello nella fede, con grande delicatezza e con il tempo necessario, a farla entrare in una nuova ottica: quella della misericordia di Dio.
Nel 1967 Wanda ebbe per la prima volta il visto per lasciare la Polonia. Doveva sottoporsi a un intervento chirurgico negli Stati Uniti, a Honolulu, dove c’era un neurochirurgo specializzato nelle patologie della colonna vertebrale.
Durante il viaggio di ritorno, meditando il consiglio di mons. Wojtyla, sentì «come un impulso imperioso», inspiegabile con la ragione: «Voglio incontrare Padre Pio». La ferita dell’intervento aveva fatto infezione, il dolore era tornato acuto, come prima dell’operazione. Nelle sue preghiere il nome di quel Frate riaffiorò alla mente. Wanda chiese la sua intercessione, con una convinzione: «Se allora la sua preghiera è stata efficace, lo sarà ora». La motivazione del desiderio di conoscere il Cappuccino stigmatizzato divenne più chiara: voleva incontrare quel Frate «che cammina con i piedi trafitti e muove le mani doloranti» per capire «che è nel potere dell’uomo accettare il dolore e il martirio».
La dottoressa polacca arrivò a San Giovanni Rotondo la sera dell’11 maggio 1967. La mattina seguente, dopo aver partecipato alla Messa di Padre Pio, lo attendeva in un corridoio insieme a tante altre persone. Il Cappuccino arrivò, guardò direttamente verso di lei, le si avvicinò, le pose «una mano dopo l’altra sulla testa» e le disse: «Va bene?».
In quel momento Wanda ebbe una certezza: Era stato proprio Padre Pio, con le sue preghiere, a salvarla dal cancro cinque anni prima. E, dopo quel viaggio, maturò in lei la «pace» e «la pazienza nel sopportare tutto, anche il dolore fisico».
Prima di rientrare in patria la dottoressa Poltawska riuscì ad assistere all’imposizione della berretta purpurea sul capo del suo fratello maggiore.
Continuò a collaborare con il card. Wojtyla prima e poi con Papa Giovanni Paolo II, che la nominò componente della Pontificia Accademma per la Vita. Ma dalla sua mente non si è mai più cancellato il ricordo del Frate incontrato a San Giovanni Rotondo.
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