A casa per guarire
All’inizio del 1909 il riacutizzarsi della malattia contratta da fra Pio, durante la permanenza a Sant’Elia a Pianisi sembra decisa a rendergli impossibile la vita in convento. I medici non riescono a consigliare altro che un po’ di «aria natia». Tocca a padre Agostino farsi carico della terapia. Insieme partono per Pietrelcina. Il suddiacono cappuccino non si lascia, comunque, scoraggiare. E non vuole neppure perdere il tempo che deve trascorrere lontano dal chiostro. Per la teologia morale, iniziata a Gesualdo, in provincia di Avellino, prima del forzoso ritorno ai luoghi della sua infanzia, si affida alle lezioni di un sacerdote suo compaesano.
Certo, per uno che aspirava fin da bambino a fare il frate, il solo abito cappuccino indosso non è sufficiente. Pur cogliendo l’occasione per godersi nuovamente l’ineguagliabile sorriso di mamma Peppa, fra Pio sente forte il richiamo del chiostro. Gli mancano la preghiera comunitaria, la Messa conventuale, i pesanti lavori, le penitenze. Soprattutto gli manca la sua celletta, unica testimone delle personali, aggiuntive forme di partecipazione ai patimenti di Cristo. Sta un po’ meglio, ma non sta bene. E, ovviamente, neanche di questo può essere contento. È imbarazzato nei confronti dei confratelli e sa di creare problemi per questa permanenza a casa che dura da troppo tempo. Il più inquieto è padre Benedetto da San Marco in Lamis, il suo direttore spirituale, che nel frattempo è diventato ministro provinciale.
I medici non sanno cosa dire di fronte a quella malattia cominciata come un semplice raffreddore e che ora, a volte, gli impedisce di respirare e di nutrirsi. La diagnosi comune è quella di broncopolmonite. Una broncopolmonite strana, che sembra non volerlo abbandonare. Che si attenua e si riacutizza. Che non dà tregua, con febbre, sudorazione, vomito e atroci dolori al torace che accompagnano ogni colpo di tosse. A rendere il quadro clinico più complesso si aggiungono le «sue pratiche ascetiche e di penitenza», cioè i digiuni e le veglie, a cui non rinuncia neppure nei periodi di infermità. Tutti i dottori consultati, comunque, sono concordi su una cosa: poiché quando è a Pietrelcina i sintomi si attenuano, qualunque sia la malattia, l’unica cura che funziona è l’aria del paese natio. Qui, però, non c’è un convento dei Cappuccini e fra Pio sta battendo tutti i record in fatto di assenza dal chiostro per malattia. Oltretutto, nei periodi in cui sta meglio, esternamente pare sanissimo, tanto è vero che lui stesso teme che qualcuno possa dubitare della sua reale sofferenza.
Il povero padre Benedetto non sa cosa fare. Prova a farlo rientrare nel convento di Santa Maria del Monte, a Campobasso. È situato su una collina alta 800 metri. Lì l’aria è sicuramente buona. Magari migliore di quella di Pietrelcina. Ma il tentativo fallisce. Nella nuova dimora la malattia si riacutizza fino ad impedire, a volte, al giovane frate persino di parlare. La stessa scena si ripete a Morcone dove, domenica 18 luglio 1909, riceve il diaconato da mons. Benedetto Maria della Camera, vescovo di Termopoli. Anche da qui, se vuole sopravvivere, dovrà ripartire al più presto.
Con lo stesso risultato si concludono le successive, brevi, permanenze a Montefusco, Campobasso, nuovamente a Morcone, ancora a Gesualdo.
Padre Benedetto non può che rassegnarsi. E gli scrive: «Mi dispiace, ma adoro l’alto decreto di Dio che, certo per ineffabile pietà, non vi permette di dimorare in quel chiostro, ove egli stesso con tanta degnazione vi chiamava. Forse vi vuole esule nell’esilio del mondo perché possiate riporre in lui solo tutte le vostre speranze e delizie».
Questa lettera giunge nelle mani del novello diacono proprio in un momento di recrudescenza della malattia, quando febbre più alta e dolori più forti gli impediscono di alzarsi dal letto. Ormai pensa di essere prossimo alla morte. È una prospettiva che non lo turba minimamente. Al contrario. Man mano che quella condizione diventa più insopportabile è lui a pregare «di essere presto sciolto dai lacci di questo misero corpo».
Il Signore ascolta le sue preghiere. Le ascolta ma non le esaudisce. E gli risponde a suo modo, compensando sofferenze e tormenti non comuni con esperienze mistiche altrettanto non comuni. Non ne parla con nessuno. Apre il suo cuore solo al direttore spirituale: «I battiti del cuore allorché mi trovo con Gesù sacramentato, sono molto forti. Sembrami alle volte che voglia proprio uscirsene dal petto».
Consolazioni come questa aiutano fra Pio ad accettare la sua condizione di infermo per far «piacere a Gesù», perchè, evidentemente, «Gesù così vuole».
Ciò nonostante, il pensiero di essere non lontano dal traguardo della morte non svanisce. È proprio questa convinzione a spingere il giovane frate a scrivere una lettera al suo Provinciale per tentare di accelerare i tempi per l’ordinazione sacerdotale. Lui sta facendo la sua parte, studiando in privato come e quanto glielo permette la malattia. C’è, però, un altro ostacolo da superare: quello dell’età. Secondo le leggi canoniche bisogna aver compiuto 24 anni per diventare presbitero e a lui mancano ancora quattro mesi per compierne 23. Pertanto al suo superiore chiede di inoltrare una domanda alla Santa Sede per ottenere «la dispensa per la mia ordinazione, esponendo il mio presente stato di salute… Così se il sommo Iddio per sua misericordia ha stabilito di perdonare le sofferenze al mio corpo, mediante la rabbreviazione del mio esilio sulla terra, come spero, morrò contentissimo, poiché non mi resta altro desiderio qui in terra».
Padre Benedetto non lascia cadere nel vuoto l’accorata supplica di quello che considera un suo figliuolo. Invia l’istanza alla Santa Sede. E finalmente il 6 luglio del 1910 può spedire a Pietrelcina la notizia tanto attesa: «Carissimo fra Pio, ho ottenuto la dispensa per l’età».
Il documento della Sacra Congregazione dei Religiosi consente di anticipare l’età dell’ordinazione di nove mesi. Di conseguenza l’evento potrà avvenire «verso il 10 o il 12 agosto». C’è giusto il tempo necessario agli adempimenti preliminari. Nella stessa lettera il Provinciale, approfittando di un miglioramento delle condizioni di salute del giovane frate, dispone il rientro nel chiostro, nel convento più vicino, quello di Morcone, per prepararsi all’ordinazione «con imparare le cerimonie».
Fra Pio obbedisce. Ma neanche questa prova riesce. Dopo aver passato solo una giornata nel luogo designato, la stessa sera è costretto a prendere carta e penna per comunicare a padre Benedetto che le sue condizioni di salute, in quelle poche ore, sono peggiorate «tanto vero che nel momento che scrivo mi trovo a letto per debolezza, a causa del vomito che mi è ritornato». Non può attendere neppure che la lettera giunga a destinazione e che arrivi la risposta. Col permesso di padre Tommaso da Monte Sant’Angelo, che è ancora maestro dei novizi, riparte immediatamente per Pietrelcina.
Resta il problema delle cerimonie. Il fraticello pensa di «apprenderle dal parroco del mio paese, che spontaneamente si è offerto».
Padre Benedetto accetta, ancora una volta, la volontà del Signore. Non si oppone alla soluzione di affidare al parroco di Pietrelcina il compito di dare le necessarie lezioni al futuro sacerdote.
Il parroco, don Salvatore Maria Pannullo, ha visto crescere il piccolo Francesco nella sua sacrestia. E ha visto crescere, ha seguito e incoraggiato la sua vocazione. Per il giovane frate è come uno di famiglia e continua a chiamarlo «zi’ Tore», come faceva quando era bambino. Don Salvatore non si accontenta, dunque, di insegnargli il cerimoniale liturgico necessario all’ordinazione sacerdotale e si prodiga per risolvere ogni altro problema. Si reca personalmente a Benevento, il 29 luglio, per fissare la data degli esami del suo allievo. E, avendo ottenuto la disponibilità per il giorno seguente, ci torna il 30 luglio per accompagnare fra Pio e per assistere, orgoglioso, all’interrogazione.
Il giudizio della commissione dell’arcidiocesi è favorevole. L’ultimo ostacolo è stato superato.