Papà Grazio portò con sé in campagna il piccolo Francesco già da quando questi aveva nove anni. Gli affidò quattro pecore ed una capra e gli insegnò come bisognava pascolare. L’esperienza negativa fatta con Michele, il primogenito, che era andato a scuola senza apprendere nulla, l’aveva indotto a non sbagliare nuovamente.
Francesco era felice di aver ricevuto quell’incarico. Poteva così restare a lungo ad ammirare la bellezza della natura, da cui era affascinato, e a pregare in silenzio. Un giorno passò dalla contrada Nicola D’Iorio, lo notò e all’amico, che si trovava distante pochi metri, disse “Razio,, tieni nu santariello a pascula’ li pecure? Grazio sorrise e tacque. L’indomani, però, osservando di nuovo il “suo” pastorello, pensò:“Ma guarda un po’, per un pugno di pecore questo figlio perde la scuola!”. Anche se ormai il ragazzo aveva superato l’età dell’obbligo scolastico e considerate le sue pie inclinazioni, ad un tratto chiese al figlio: “Francì,vulisse ji alla scola?”. Francesco prontamente rispose: “Ma sì che ci voglio andare a voi andare”. “Ah, vuoi andare! Se tu pigli, apprendi e non fai come tuo fratello, vedrai che tata (tuo padre) ti fa monaco”.
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Passarono alcuni giorni, ma Grazio non prese nessuna iniziativa. Pensava al pozzo che stava facendo scavare ed era irritatissimo perché, dopo alcuni metri di profondità, l’acqua non compariva. Francesco, che partecipava alle sue ansie, lo pregò di non adirarsi. L’acqua non sarebbe uscita li, ma in un altro posto che egli stesso indicò.
Grazio rispose: “E va bene, io faccio scavare dove hai detto tu, ma guai se l’acqua non esce. Metterò te nella fossa!”. L’acqua invece ben presto zampillò nel luogo scelto dal suo figlio e fu abbondante. Dopo qualche mese Francesco chiese al padre: “Tata, e quando mi mandi a scuola?”. “Ah, vuoi andare? Subito subito ci andrai” promise Grazio. E,a sera,parlò con la moglie. Insieme decisero di mandarlo da un maestro privato. Pensarono prima a Cosimo Scocca, poi a Domenico Tizzani, un prete che ha abbandonato l’abito talare, per vivere e far vivere la moglie ed una figlia dava lezioni in un pianterreno, a cinque lire al mese, equivalenti per i Forgione, ad un tombolo di grano.
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Quell’anno il raccolto fu magro e sconvolse il bilancio familiare. Grazio doveva far fronte a gravosi impegni, ma non aveva il denaro necessario. aveva bisogno di un prestito, che mai aveva fatto e che non sapeva fare. ci sarebbe voluto un intermediario e finì per trovarlo nel figlio studente, al quale fornì le opportune indicazioni. Francesco, dopo la lezione, quando tutti i compagni andarono via, rimase immobile al suo posto. Alle domande del maestro che gli chiedeva se per caso si sentisse male, rispose: “Ha detto tata se gli prestate cento lire“. Il maestro, conoscendo l’onestà dei Forgione, non oppose alcuna difficoltà e diede il denaro al ragazzo, che, leggendolo con la mano in una tasca, corse a consegnarlo al genitore. Grazio andò a ringraziare il suo creditore e si informò se il figlio o meno il profitto. “Non vi preoccupate, – assicurò il maestro – il ragazzo piglia, piglia bene!” “Don Dome’ , io avrei l’idea di farlo monaco” – confidò il buon uomo. “E che monaco volete farlo?” – s’informò Tizzani,
“Monaco di messa” precisò Grazio. “In questo caso avrà bisogno di un libro in latino” osservò l’esperto insegnante. “E che ne saccio io Don Dome’ provvedete voi stesso quando andrete a Benevento. Sapete in che condizioni mi trovo!” Concluse il Forgione, mortificato se ne sono a casa. Dopo lunga riflessione decise di espatriare. Solo così avrebbe potuto estinguere il suo debito e fa studiare il figlio.
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